venerdì 14 ottobre 2016

Territori deboli, repubblica precaria



Riproduciamo qui un estratto di un importante articolo pubblicato sul numero 0 del settembre scorso 2016 di Diritti-Lavoro (pp. 40-48), una nuova serie di quaderni promossa dal Forum Diritti Lavoro della USB. Potete scaricare l'intera rivista direttamente dal sito della USB o da Istella.


GOVERNO FORTE, REGIONI DEBOLI
di Laura RONCHETTI

“...oltre le comunicazioni e
le professioni, la produzione,
il trasporto e la distribuzione
nazionali dell’energia nonché
le infrastrutture strategiche,
le grandi reti di trasporto e
di navigazione di interesse
nazionale.”

Riforma Renzi-Boschi: la centralizzazione dei poteriIl discredito che ha colpito le autonomie terri-
toriali negli ultimi anni rischia di condizionare pe-
santemente la riflessione sulla ennesima revisione
costituzionale del Titolo V della Parte II della Costi-
tuzione attualmente dedicato a “Le Regioni, le Pro-
vince, i Comuni”.
Per cogliere appieno il significato del Titolo V è
opportuno collocare gli articoli interessati (artt. 114-
133) nel tessuto complessivo della Costituzione. Il
rilevante numero di articoli coinvolti –per certi versi
sorprendente – spinge a chiedersi perché le autono-
mie territoriali occupino tanto spazio della e nella
Costituzione, suggerendo che si tratti comunque di
disciplina affatto minore, non secondaria, per l’inte-
ro ordinamento repubblicano.
Per rispondere a tale interrogativo è rilevante co-
gliere i nessi esistenti tra il Titolo V e Principi Fon-
damentali e la Parte I della Costituzione dedicata ai
Diritti e doveri dei cittadini. Tra questi ai nostri fini
assume centralità l’articolo 5 della Costituzione che
recita “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e
promuove le autonomie locali; attua nei servizi che
dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo; adegua i principi ed i metodi della
sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del
decentramento”.  In prospettiva storica può dirsi,
dunque, che l’articolo 5 ha avuto un primo svolgi-
mento con il testo originario della Costituzione, pe-
raltro attuato soltanto dal 1971 con la tardiva isti-
tuzione delle Regioni ordinarie; una seconda forma
attuativa con la complessiva riforma costituzionale
del triennio 1999-2001 e attualmente torna ad essere
oggetto di un ulteriore progetto di revisione costitu-
zionale promosso dal ddl Renzi-Boschi. 
È' opportuno domandarsi quale idea di autonomia
territoriale si sviluppi in queste tre differenti fasi nel
passaggio dal testo originario a quello attualmente
vigente, fino all’eventuale nuovissimo Titolo V. 

Il principio autonomistico e pluralismo  Con l’articolo 5 s’introduce, come immodificabi-
le, il principio autonomistico nella nostra Costituzio-
ne. Con questo principio si aggiungeva un ulteriore
tassello alla visione pluralista dell’ordinamento e
delle forme della convivenza che pervade l’intera
Costituzione. Garantire sfere di autonomia – dunque
di autodeterminazione, di autogoverno, di libertà, di
potere di darsi un proprio ordinamento – significa
riconoscere e valorizzare la pluralità, non solo dei
soggetti individuali, ma anche di quelle collettivi.
Tra i soggetti collettivi, oltre a quelli tipicamente
sociali, nel nostro ordinamento assumono un ruolo
chiave le autonomie territoriali, di cui appunto si oc-
cupa il Titolo V. Può, dunque, dirsi che tale Titolo
sia lo svolgimento sul piano territoriale del principio
supremo autonomistico. 
In altri termini più che le specifiche competenze
e funzioni, l’idea che sorregge il principio autono-
mistico risiede nella convinzione che le autonomie
territoriali non sono meri enti funzionali all’indiriz-
zo politico dello Stato ma enti esponenziali e rappre-
sentativi di una comunità in grado di esprimere un
indirizzo politico anche diverso da quello della mag-
gioranza politica che guida lo Stato.  Un’attività di
indirizzo politico proprio che soltanto per le Regioni
si svolge tramite la potestà di adottare di leggi, affi-
data alle assemblee rappresentative della comunità.
I nostri Costituenti, dunque, optarono per un re-
gionalismo politico, in cui il potere d’indirizzo po-
litico deriva, non dallo Stato, ma dalla comunità di
riferimento abbandonando l’alternativa funzionali-
sta delle la prospettiva che, invece, le considera meri
enti idonei a veicolare le risorse del territorio verso
obiettivi di settore, come ogni altro tipo di ente pub-
blico.
Sarebbe superficiale, dunque, ridurre il regiona-
lismo a mera questione di competenze legislative
quando, invece, è parte significativa del rapporto
complessivo che si crea tra la comunità politica e il
territorio, tra popolo e Repubblica. 
L’asse portante del principio di autonomia è sem-
pre la collettività che l’ente dovrebbe rappresentare.
Le istituzioni territoriali sono, quindi, strumenti di
partecipazione popolare all’esercizio del potere po-
litico. Per questo “la elettività di tali organi è princi-
pio generale dell’ordinamento” (Sentenza della Cor-
te costituzionale. n. 96 del 1968), principio oramai
messo in crisi dalla legge Delrio (l. 7 aprile 2014 n.
56) che ha soppresso l’elezione diretta dei Consigli
provinciali.
Tale principio generale dell’ordinamento come
vedremo è messo in discussione anche dal nuovo Se-
nato facendo sorgere interrogativi su quale visione
della rappresentanza politica la riforma costituziona-
le potrebbe contribuire a determinare.  
Le tante insufficienze, negligenze e nefan-
dezze addebitabili alle autonomie territoriali non
dovrebbero impedire di scorgere e riconoscere che
non di rado le esperienze regionali e locali hanno an-
ticipato importanti conquiste sociali (basti pensare al
diritto alla casa, ai consultori, ai centri antiviolenza o
al reddito di cittadinanza) e hanno sperimentato nuo-
ve forme della convivenza (dal co-housing alla fi-
liera corta nelle produzioni agricole, dalla ospitalità
diffusa all’ippoterapia). Talvolta hanno anche saputo
contrastare efficacemente una politica nazionale le-
siva dei diritti fondamentali, come ha riconosciuto
la Corte costituzionale. È importante in proposito ri-
cordare le leggi regionali che, di fronte al Pacchetto
sicurezza, hanno espressamente riconosciuto i diritti
fondamentali a tutte le persone presenti sul territorio
a prescindere, non solo dalla cittadinanza, ma anche
dalla regolarità del permesso di soggiorno.
Si tratta di un esempio lampante di come il con-
flitto tra indirizzo politico statale e quello locale pos-
sa creare quei pesi e contrappesi che sono considerati
garanzie costituzionali contro ogni tipo di tendenza
o tentazione accentratrice del potere. 
Il principio di autonomia diviene così “garanzia
di libertà contro ogni avventura autoritaria”, come
scriveva Crisafulli, ed elemento caratterizzante la di-
mensione democratica della Repubblica.
La Repubblica, inoltre, è il soggetto (complesso)
incaricato dalla Costituzione di attuare tutti i prin-
cipi supremi dell’ordinamento, dal promuovere la
cultura al diritto al lavoro, passando per quello che è
definito “il compito” per eccellenza, vale a dire per-
seguire l’uguaglianza sostanziale (articolo 3, com-
ma 2, Costituzione): nella loro qualità di enti inter-
ni alla Repubblica, quindi, le autonomie territoriali
compartecipano alla attuazione dei principi supremi
dell’ordinamento.
Le aspettative riposte nei Consigli regionali sono
state spesso deluse. Tra le cause di questa crisi dei
Consigli, tuttavia, rientra anche la riforma del Titolo
V intervenuta tra il 1999 e il 2001 che ha introdotto
un meccanismo istituzionale contraddittorio: da un
lato, si è fortemente potenziata la competenza legi-
slativa regionale, dall’altro, si è invece determinata
la marginalizzazione politica dei titolari della rela-
tiva potestà – i Consigli regionali – che sono sta-
ti esautorati dal nuovo ruolo del Presidente della
Regione, direttamente investito dalla comunità. La
conseguente crisi dei Consigli ha impedito ancora
una volta di valorizzare la politicità dell’autonomia
regionale intesa come attività di indirizzo politico
esercitata in maniera prioritaria attraverso la potestà
legislativa.
Con la revisione costituzionale in corso si è de-
ciso di ricentralizzare in capo allo Stato molte delle
materie attribuite alle Regioni nel 2001, mentre si
lascia intatta la forma di governo regionale che dal
1999 prevede lo scioglimento del Consiglio in caso
di qualunque motivo porti alle dimissioni (compresa
la morte) del Presidente della Regione. 

(...)

Quale autonomia, quale politicità?  È facile rilevare l’incoerenza della scelta
di trasformare il – comunque confermato –
bicameralismo per dare voce a livello statale ad
autonomie territoriali fortemente ridimensiona-
te.  Non convince la tesi di vedere nel nuovo Senato
una forma di compensazione della perdita di sfere
legislative in capo alle Regioni.
A fronte della perdita di garanzia costituzionale
della competenza legislativa delle Regioni è oppor-
tuno, dunque, domandarsi quale accezione del prin-
cipio autonomistico intenda perseguire la revisione
costituzionale in corso.
Per rispondere a questo interrogativo, oltre a guar-
dare alla quantità delle funzioni e delle competenze,
diventa dirimente interrogarsi sulla loro qualità, sul-
la loro natura. Oltre la significativa contrazione del-
le competenze regionali, dunque, deve rilevarsi che
nelle materie affidate alle Regioni si moltiplicano i
riferimenti alla mera programmazione e organizza-
zione, promozione e valorizzazione che sono intera-
mente riconducibili all’attività amministrativa dei
Consigli. Saremmo di fronte, quindi, a una definitiva
amministrativizzazione delle Regioni. 
La connotazione prettamente amministrativa del-
la legge regionale finirà per rendere più acuta la crisi
della politicità del territorio, non più pensato come
spazio politico della comunità ma concepito come
ente per eseguire obiettivi di settore.
Analogo scivolamento potrebbe coinvolgere il
Senato della Repubblica. La legge di revisione costi-
tuzionale, infatti, attribuisce alla seconda Camera la
valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività
delle pubbliche amministrazioni, nonché la verifica
dell’attuazione delle leggi, funzioni che si connota-
no chiaramente per essere attività di carattere tecni-
co-amministrativo e non certo di controllo e indiriz-
zo della politica nazionale, funzione rimessa a titolo
esclusivo alla Camera dei deputati.
La spinta verso la spoliticizzazione coinvolge,
dunque, entrambi i livelli di governo. L’ambigua na-
tura che le autonomie regionali sembrerebbero assu-
mere nella prospettiva della riforma è, infatti, stret-
tamente connessa l’anfibia natura del nuovo Senato. 
È difficile, infatti, cogliere il tipo di rapporto
rappresentativo che i cento nuovi senatori potranno
esprimere: liberi nel mandato tanto quanto i deputati
che continueranno a esprimere la fiducia al Governo,
i senatori selezionati dai Consigli regionali (al
loro interno e tra i sindaci) e dal Presidente della
Repubblica sono definiti “rappresentativi delle
istituzioni territoriali” (art. 57, comma 1). La circo-
stanza che i componenti del Senato non godano del-
la qualifica di “rappresentanti” suggerisce l’assenza
di un rapporto di rappresentanza e di responsabilità
politica dei senatori con le istituzioni territoriali. Se
questa interpretazione dovesse trovare riscontro, si
rischierebbe di avere, quindi, un nuovo Senato della
Repubblica autorappresentativo e autoreferenziale. 
Le trasformazioni delle sedi rappresentative, dun-
que, sembrerebbero trovare echi e parallelismi tra il
livello statale e quello locale dando forma alla crisi
dell’idea stessa dell’ente esponenziale rappresentati-
vo, crisi nella quale il territorio è pensato non come
spazio politico della comunità ma concepito nella
sua dimensione quantitativa amministrativizzata.
Sembrerebbe, quindi, in corso un ridimensionamen-
to della politicità delle autonomie territoriali e della
Camera che le dovrebbe rappresentare a favore di
una loro riscrittura in senso funzionalista. 
Non infondata appare, di conseguenza, la pre-
occupazione che le Regioni e con esse la Camera
che le rappresenta costituiranno un contrappeso de-
cisamente meno significativo al potere statale e in
particolare al potere del Governo. La connotazione
garantista del principio autonomistico, quale ele-
mento strutturale della dimensione democratico-co-
stituzionale della Repubblica, verrebbe fortemente
ridimensionata, modificando il modo d’essere della
Repubblica. Se tale cambiamento investirà soltanto
la portata normativa dell’art. 5 Cost., ovvero avrà ri-
cadute su tutti gli altri principi fondamentali della
Costituzione, è questione aperta. 
In passato non è mancato chi, come Ernesto Ra-
gioneri, abbia colto come la questione delle autono-
mie in Italia riemerga in tutti i momenti di crisi e di
passaggio perché espressiva anche dei “rapporti di
classe e di potere affermatisi in Italia dall’unificazio-
ne” in poi. Anche in questa fase il nuovo intervento
sulla forma di Stato regionale trova corrispondenze
con esigenze insite negli sviluppi delle forme di in-
terdipendenza a livello globale. La lex mercatoria e
le sue istituzioni spingono per il progressivo inde-
bolimento della dimensione politica degli enti terri-
toriali, sia di quello sovrano (lo stato) che di quelli
autonomi, a favore di una concezione funzionalista
dei territori intesi come mere proiezioni spaziali di
dinamiche socio-economiche, come semplici luoghi
della pianificazione economica e territoriale, se non
di mera competizione. 
Non deve sottovalutarsi che questa accezione
impolitica delle forme della convivenza continua a
trovare una forma di resistenza nelle Costituzioni
ancora vigenti (enfasi aggiunta dal nostro blog, ndr).

Con lo sviluppo dei fenomeni della
globalizzazione risulta sempre più evidente che, per
quanto siano depotenziati i limiti posti nelle Costi-
tuzioni democratiche – sotto forma garanzia dei di-
ritti e di divisione dei poteri –, la loro forma scritta
rappresenta tuttora un ostacolo al pieno dispiegarsi
della lex mercatoria.
Le Costituzioni della ‘periferia’ europea e tra
queste quella italiana – per usare le parole di un’au-
torevole istituzione della globalizzazione, la banca
JP Morgan nel suo Rapporto del 28 maggio 2013 – si
caratterizzerebbero, infatti, oltre che per “esecutivi
deboli; disposizioni costituzionali di tutela dei diritti
del lavoro; sistema di costruzione del consenso che
favorisce il clientelismo politico; il diritto di prote-
stare se modifiche non benvenute sono fatte allo sta-
tus quo”, anche “per Stati centrali deboli rispetto alle
Regioni”. 
La riforma delle autonomie locali, in effetti, rien-
tra già nelle politiche di condizionalità che si sono
travasate nell’ordinamento dell’Unione europea.
Basti ricordare che la lettera del 5 agosto 2011 ri-
volta all’Italia a doppia firma del Governatore della
Banca d’Italia e del Presidente della BCE – oltre alla
riforma pensionistica, al blocco del turn over, alla
riduzione degli stipendi pubblici, alla modificazione
della contrattazione collettiva – ‘invitasse’ a mettere
sotto stretto controllo, non solo l’assunzione di inde-
bitamento, ma anche le spese delle autorità regionali
e locali nonché espressamente ad abolire le Provin-
ce.
In questa direzione è possibile leggere, dunque,
non solo l’introduzione in Costituzione nel 2012 del
pareggio di bilancio che orienta anche il regionali-
smo italiano, ma la riforma Delrio che ha eliminato
la elettività diretta per i nuovi enti di area vasta che
hanno sostituito le vecchie province che, dunque,
non sono soppresse. È quindi possibile cogliere un
filo rosso tra queste riforme e la legge di revisione
costituzionale Renzi-Boschi.
Con queste osservazioni conclusive non si in-
tende affatto negare l’opportunità di ripensare – per
limitarsi a quel che in queste riflessioni rileva – il
rapporto tra lo Stato e le autonomie territoriali disci-
plinato dal Titolo V della Costituzione, soprattutto al
fine di rimediare agli errori commessi con le prece-

denti revisioni costituzionali (leggi costituzionali n.
1 del 1999 e n. 3 del 2001 e nonché quella del 2012),
quanto piuttosto di contestualizzare l’orizzonte di
senso dell’attuale progetto di riscrivere ancora una
volta una parte così significativa della Costituzione.

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